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Le particelle di dimensioni maggiori assorbivano la luce come fa di norma il cloruro di rame. Ma più diminuivano le dimensioni dei cristalli di rame presenti nei campioni, più la radiazione elettromagnetica che questi assorbivano variava verso il blu. Grazie al suo background di fisico, Ekimov si rese velocemente conto di trovarsi di fronte a un fenomeno fisico in cui le caratteristiche del materiale dipendevano dalle sue dimensioni, come previsto dalla meccanica quantistica. E in effetti, si trattava della prima volta che i quantum dot venivano creati deliberatamente e osservati in laboratorio. Ekimov pubblico la sua scoperta nel 1981, ma in piena guerra fredda la notizia rimase confinata all’interno della cortina di ferro, senza che la comunità scientifica occidentale ne venisse a conoscenza.
Intanto negli Stati Uniti…
Negli anni in cui Ekimov portava a termine i suoi esperimenti in Unione Sovietica, Louis Brus, il secondo Nobel di quest’anno, lavorava presso i laboratori Bell, in America. Il suo obbiettivo era quello di utilizzare l’energia solare per indurre reazioni chimiche, e per farlo utilizzava particelle di solfuro di cadmio, che il chimico stava cercando di rendere il più piccolo possibile, per aumentare la superficie dell’aerea in cui le sue reazioni chimiche avevano luogo.
Un po’ come per il collega russo, la sua scoperta arrivò quasi per caso, quando si accorse che le caratteristiche ottiche delle sue soluzioni di solfuro di cadmio mutavano se lasciava i campioni in laboratorio per qualche giorno. Quale poteva essere la spiegazione? Lo scienziato ipotizzò che dipendesse da un aumento di dimensione delle particelle, e si mise al lavoro per dimostrarlo. Realizzò quindi particelle di solfuro di cadmio di appena 4,5 nanometri, per poi compararne le caratteristiche con quelle di dimensioni maggiori già attenute, di circa 12,5 nanometri. Anche in questo caso, le particelle più grandi si comportavano come il normale solfuro di cadmio. Mentre le proprietà di assorbimento di quelle più piccole erano virate verso il blu.
Come Ekimov, anche Brus si rese conto di trovarsi di fronte a un fenomeno quantistico legato alle dimensioni delle particelle, e pubblicò la sua scoperta nel 1983, segnando l’arrivo dei quantum dot sulla scena scientifica occidentale. I nanocristalli prodotti da Brus, però, contenevano difetti che spesso ne compromettevano le caratteristiche. E per ottenere particelle con dimensioni simili gli scienziati dovevano selezionarle dopo averle prodotte, un processo complesso che allungava notevolmente i tempi di produzione. Perché i quantum dot potessero essere studiati agevolmente, e trovassero applicazioni nello sviluppo di tecnologie commerciali serviva un metodo di produzione più economico, rapido e preciso. Ed è qui che entra in gioco l’ultimo premio Nobel per la chimica di quest’anno.
I quantum dot diventano realtà
Moungi Bawendi si unì al team di Bruss nel 1988, subito dopo aver terminato un dottorato in chimica presso l’Università di Chicago. Nei laboratori Bell Bawendi esplorò una lunga serie di tecniche e materiali, alla ricerca del metodo perfetto per ottenere i nanocristalli desiderati da Brus. I suoi sforzi non diedero i risultati sperati, ma il chimico non si perse d’animo, continuando le sue ricerche anche dopo essere passato a lavorare per l’Mit. Ed è qui, nel 1993, che arrivò la sua grande scoperta. Il nuovo metodo prevedeva l’iniezione del materiale da cui si volevano ottenere nanocristalli in un solvente a temperatura elevata, fino a saturare la soluzione e ottenere dei piccolissimi cristalli della sostanza desiderata. Variando dinamicamente la temperatura del solvente, Bawendi poteva anche ottenere nanocristalli delle dimensioni desiderate: era l’alba di una nuova era per i quantum dot.