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L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) lo ripete da anni: il solare sarà il nuovo re dell’elettricità. E il tempo le sta dando ragione. Nel 2022 la generazione fotovoltaica globale è cresciuta a un tasso record del ventisei per cento, il più alto fra tutte le fonti rinnovabili. Inoltre, secondo le previsioni dell’organizzazione, prossimamente il solare supererà l’eolico e l’idroelettrico per detronizzare, entro il 2027, anche il carbone.
L’espansione del fotovoltaico è favorita dalla facilità di collocamento dei pannelli solari – rispetto, per esempio, a turbine alte decine di metri – e dall’abbondanza della fonte primaria, il Sole. Ma la tecnologia non è priva di difetti: i parchi solari consumano tanto suolo e sono dipendenti dalla visibilità e dalla posizione del Sole in cielo. Oltretutto, di notte, quando è nuvoloso e durante l’inverno possono non produrre abbastanza o affatto.
Mandare i pannelli in orbita
Un modo per risolvere questi inconvenienti, però, ci sarebbe. Se i pannelli venissero posizionati nello spazio, sarebbero quasi perennemente esposti al Sole e potrebbero produrre energia senza interruzione, come le centrali nucleari e a gas.
L’idea, in pratica, consiste nello spedire dispositivi fotovoltaici in orbita, a circa 36mila chilometri sopra la Terra, in modo che possano produrre energia in maniera continuativa e stabile. L’energia raccolta verrebbe poi inviata alla superficie terrestre attraverso un fascio di microonde e convertita in elettricità dalla stazione ricevente, in questo modo si minimizzano le perdite nel trasferimento.
Questa nuova tecnologia, nota anche come space-based solar power (Sbnp) sembra fantascienza, ma non lo è. Anche perché il fotovoltaico è un sistema legato allo spazio fin dalle sue origini: nel 1958 le forze armate degli Stati Uniti fecero montare sei celle solari, inventate quattro anni prima nei Bell laboratories in New Jersey, sul Vanguard 1, il secondo satellite americano lanciato in orbita.
Gli esperimenti
Le centrali solari orbitali sono già realizzabili tecnicamente, lo dimostrano alcuni esperimenti. A giugno, il California institute of technology (Caltech) ha dato notizia di aver trasferito con successo, per la prima volta in assoluto, energia solare dallo spazio alla Terra in modalità wireless. Il loro prototipo, chiamato Maple, ha una portata molto ridotta – l’elettricità ottenuta è servita ad accendere un paio di led –, ma ha provato che il sistema funziona. Un anno prima i ricercatori della Xidian university, in Cina, avevano testato un modello per convertire in microonde la luce solare catturata e trasformarla in elettricità; tutto questo, però, soltanto a una modesta altezza da terra.
Anche il Giappone e l’India sono impegnati nello studio del solare spaziale. L’Agenzia spaziale europea ha dedicato a questa tecnologia il programma Solaris, che dovrebbe mettere a punto un piano di sviluppo entro il 2025. L’azienda cinese Longi, poco nota al grande pubblico pur giocando un ruolo fondamentale nella produzione di componentistica solare a livello mondiale, ha detto di voler inviare i propri pannelli nello spazio con l’obiettivo di studiarne le performance.
I problemi e il ruolo di SpaceX e Blue Origin
Uno dei problemi principali del solare orbitale sono le aspre condizioni dello spazio esterno, che accelerano il degradamento dei pannelli e ne riducono l’efficienza nel giro di poco tempo, rendendo necessaria una manutenzione frequente o la loro sostituzione. Mandare materiale e ingegneri in orbita, però, è costoso sia in termini economici che di emissioni. È vero che l’elettricità da fotovoltaico è priva di CO2, ma i lanci dei razzi necessari a portare in orbita i pannelli e le altre strutture, rilasciano ingenti quantità di gas serra. Tuttavia, l’utilizzo di veicoli per carichi pesanti, come il Falcon Heavy di SpaceX e il New Glenn di Blue Origin, permetterebbe di risparmiare sul numero di invii e quindi sulle spese. Quanto alle emissioni, il loro volume è difficile da stimare.
Non bisogna scordare, però, che anche l’impronta carbonica del fotovoltaico tradizionale a terra può essere significativa, soprattutto per quanto riguarda i processi produttivi. Infatti, la fabbricazione di polisilicio, il materiale alla base del ciclo manifatturiero dei pannelli, è molto energivora e inquinante, dato che, solitamente, viene alimentata da fonti fossili nelle fabbriche cinesi.
In ultimo – come ha spiegato Matteo Ceriotti dell’Università di Glasgow –, il solare spaziale pone delle questioni di sicurezza relative alle microonde per il trasferimento di energia sulla Terra. Un fascio di microonde partito dall’orbita geostazionaria e abbastanza potente da raggiungere la superficie del nostro pianeta “potrebbe danneggiare qualsiasi cosa si trovi sul suo percorso”. Per evitare problemi di questo tipo, la densità di potenza del fascio deve essere sempre limitata.