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Le premesse sono invero scarne come le descriviamo, le spiegazioni ridotte all’osso, la presentazione dei personaggi altrettanto. Il motivo risiede nella volontà della Beer di calare il prima possibile lo spettatore nell’orrore di una cittadina improvvisamente piagata da un’ondata di follia omicida che investe giovani uomini, cani e chiunque vi si imbatta. Quasi immediatamente Bloodlines si immerge in scene raccapriccianti, truculente e violente di menomazioni e sbudellamenti, dove a essere presi di mira sono sempre quelli che per i resuscitati erano stati in vita gli affetti più cari. I risorti si moltiplicano, i jumpscare si susseguono, e la Beer dà fondo agli espedienti noti più battuti dal cinema dell’orrore americano mainstream per spaventare lo spettatore. Alla fine, il risultato non è solo estremamente prevedibile ma l’aver privilegiato l’orrore immediato rispetto alla costruzione di storia e personaggi si ritorce contro l’autrice, che non può contare su antagonisti significativamente e intimamente spaventosi. Ci riferiamo a figure aberranti come quella di Timmy Baterman descritte magistralmente nella fonte letteraria che nella trasposizione perdono incisività.