mercoledì, Dicembre 4, 2024

C’era una volta il cinema italiano in America

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Quando esce un film in Italia, si guarda spesso alla sua prospettiva sul mercato americano. Il riferimento è sopratutto ai film che transitano nei maggiori festival europei e sulla base del successo ottenuto o del premio vinto, appunto si guarda a quale incasso e quale notorietà possa conseguire negli States. Nei giorni in cui scriviamo questo articolo, Matteo Garrone con i suoi produttori e gli attori del film Io Capitano, sta per sbarcare oltre oceano per cominciare a promuovere il suo film in vista dell’annuncio della lista dei film candidati alle premiazioni dei premi Oscar 2024. Questa pellicola, infatti, è stata proposta come rappresentante dell’Italia, ma la decisione di inserirla nella cinquina finalista del premio come Miglior film straniero si fonda su diversi parametri che comprendono anche il marketing, la comunicazione e l’immagine del film, oltre che ovviamente a come è fatto e cosa esprime. Ecco appunto, gli Oscar sono sempre stati dal secondo dopoguerra in avanti la meta, l’ambito premio, il riconoscimento principale per consacrare un film italiano negli Stati Uniti. Ma è sempre stato così? Come sono arrivati i film italiani nella terra di Hollywood, con quali prospettive e soprattutto come si è evoluta la loro presenza nel corso del tempo a partire sempre dalla fine degli anni Quaranta del Novecento? L’indagine di Damiano Garofalo raccolta nella pubblicazione C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946-2000 edito da Rubbettino, fornisce le risposte. Il libro, infatti, vuole spiegare su quali assi si è impostata la proposta italiana nei cinema americani, come è cambiata e con quali finalità, prendendo in esame i maggiori film italiani e i loro interpreti (in particolare registi e produttori). 

Come sempre partiamo dai dati. Il libro è stato pubblicato dall’editore nella collana Cinema diretta da Christian Uva; è datato 2023 e si compone di 245 pagine così suddivise: Introduzione, Avvertenze, 4 capitoli, Conclusioni, Indice dei nomi e dei film. I quattro capitoli prendono in esame quattro periodi dei cinquant’anni circa che considera il libro. Il primo capitolo tratta del Neorealismo; il secondo sul cinema d’autore, principalmente tra gli anni Cinquanta e Sessanta; il terzo il cinema popolare e quello di genere che l’autore raccoglie sotto il cappello “L’altra Italia”; infine il quarto sull’americanizzazione del cinema italiano. Le conclusioni, poi, si concentrano su quanto avvenuto dopo il 2000 fino alla nuova serialità italiana, con riferimento ai lavori di Paolo Sorrentino e Luca Guadagnino, in un capitolo che si intitola “La sindrome dell’autore”. Come potete notare, già i nomi dei capitoli definiscono abbastanza precisamente i macro temi su cui si è imposta la distribuzione di questi film oltre oceano e quindi anche il filo dell’analisi (e del cinema italiano del Novecento): il neorealismo, il cinema d’autore di metà Novecento, quello più di genere e popolare, contaminato da alcune presenza autoriali, e infine l’americanizzazione del cinema italiano a partire da Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore nel 1989, per poi giungere al XXI secolo con le velleità (?) del cinema italiano. 

Apriamo il libro. Prima di passare ai contenuti, è necessario comprendere come l’autore coordina la sua scrittura. La scelta è molto più narrativa che saggistica, perché al posto di numeri e dati, date ed eventi storici, Garofalo spiega, illustra, racconta l’avventura di questi film negli Stati Uniti. Il suo periodare è fluido, appassionante e lessicalmente sempre preciso e puntuale. Non esprime giudizi tranciati o si lascia andare a espressioni di gioia, ma rimane sempre ancorato ai fatti, per quanto un suo giudizio tra le righe, soprattutto nell’ultimo capitolo e nelle conclusioni, si percepisca. È proprio questo sviluppo sintattico coinvolgente e lineare che porta all’emersione l’organizzazione dei contenuti. Pressoché per ogni capitolo e sottocapitolo, l’autore comincia la sua narrazione con uno spunto narrativo inerente al cinema. Ad esempio per il capitolo uno sul cinema neorealista, l’autore parte dalla presentazione di un militare americano, Rod Geiger, che vive a Roma negli anni Quaranta e qui conosce Roberto Rossellini, vede Roma città aperta e diventa, poi, il distributore in America del film. Nel capitolo quattro, Garofalo illustra la teoria estetica camp proposta da Susan Sontag che teorizza la supremazia dello stile sul contenuto, per spiegare come il cinema italiano negli anni Novanta arriva alla distribuzione americana. Successivamente a questo aggancio, utile anche come fonte di conoscenza per chi legge, l’autore comincia la trattazione dei film distribuiti sul territorio, ne spiega i motivi e come avviene, citando anche in alcuni casi, precisi artefici come Harvey Weinstein, la diffusione in determinate sale, in quante città, e la fortuna critica. Riassume, in questo caso, il senso dell’articolo di diverse testate non solo di cinema, ma anche quotidiani per permettere al lettore di comprendere come si articola anche la critica negli Stati Uniti. In linea di massima, ma non è sempre così, i giornalisti americani nella seconda parte del Novecento hanno utilizzato come metro di giudizio di un film italiano o il neorealismo o le pellicole di Fellini. A intervallare la narrazione nella pagina, sono proposte le locandine americane dei film citati, espediente molto utile non solo per capire quale immagine fosse veicolata in quel territorio del film, ma anche per comprendere la frase di lancio e quindi l’idea del film. Procedendo nella narrazione, Garofalo si sofferma anche a narrare l’impatto nella società americana dei film e se il significato ideologico, morale, storico, si accordi o no, a quella americano. Racconta, poi, la tecnica distributiva, i vari stratagemmi e intuizioni in previsione dell’eventuale percorso verso gli Oscar. Interseca, così, la spiegazione delle distribuzioni dei film non necessariamente partendo da una linea precisa di temporalità, ma procedendo per nuclei tematici che l’autore ha individuato per la sua scrittura. 

I contenuti, quindi. L’introduzione propone una storia dell’idea che ha mosso l’autore e come l’ha sviluppata editorialmente (citiamo da p.13:« […] provare a capire il ruolo del cinema italiano comune vettore di mutamenti che, a partire dal secondo dopoguerra, invadono l’industria cinematografica statunitense nel suo insieme»), il metodo da lui assunto per la ricerca e le relative fasi e, infine, spiega perché ha deciso di concentrasti sulla diffusione nelle metropoli americane e non in tutte le città. È stata una scelta dettata da altre scelte. Si parte, quindi, con il neorealismo, con Roma città aperta e l’impegno, anche economico, di Geiger di distribuire il film in America. L’autore sottolinea come la stampa americana mettesse in evidenza la “veridicità” del film come punto di maggiore forza e di come questo possa essere interpretato in stretta continuità con le esigenze della società americana del dopoguerra. Non vi facciamo tutto l’elenco dei film analizzati, ma solo dei principali per non privarvi del gusto della scoperta. In questo capitolo, proseguendo, dobbiamo mettere in evidenza la spiegazione che Garofalo fornisce della art house. Queste sono «sale cinematografiche indipendenti al di fuori del mercato mainstream, che programmano film “d’arte”, come i film stranieri, documentari o film di finzione, realizzati da case di produzione tendenzialmente non vincolate a Hollywood» p.36. Queste diventano le sale del cinema italiano di massa ed è interessante la motivazione che l’autore propone sul perché gli spettatori americani si riversarono in così tanti nei cinema americani a vedere i film stranieri e in particolare quelli italiani. Nella risposta si notano implicazioni sociali, di risveglio della società americana dopo la parentesi della guerra e di riappropriazione culturale attraverso la scoperta del nuovo. È in questi passaggi di indagine artistico-sociale, di parallelismo tra la storia americana e quella italiana che il libro di Garofalo sprigiona la sua maggiore capacità di interesse, perché dimostra come attraverso la comprensione del film e della sua fruizione si possa capire la società e quindi l’uomo.

Ma proseguiamo. Dopo Rossellini, il mercato statunitense scopre Vittorio De Sica e Garofalo parlando di questi regista fa capire come il livello cinematografico si alzi, parallelamente alla richiesta del pubblico americano. In questa esperienza del neorealismo non può mancare la citazione dell’impatto di Anna Magnani sul mercato americano e soprattutto de La Strada di Federico Fellini che si pone nella fase di passaggio tra l’esperienza neorealista e un nuovo modo di interpretare la realtà. Il secondo capitolo, quindi prende in considerazione soprattutto il cinema d’autore e si apre, appunto, con Fellini. Del regista romagnolo non è solo preso in esame il percorso filmico, ma anche l’attenzione e la curiosità per il personaggio e il suo cinema che la sua figura aveva smosso nell’industria cinematografia americana. La Astor Pictures è stata la casa di distribuzione de La Dolce vita (il film che ha rilanciato il cinema italiano dopo che alla fine degli anni Cinquanta e soprattutto nel 1961 c’erano stati alcuni segnali di crisi) e Garofalo ne spiega precisamente la tecnica distributiva, i punti di forza e le battaglie condotte per rendere anche Fellini, quasi, il depositario dell’idea di cinema d’autore negli Stati Uniti a metà Novecento (e le reazioni del regista stesso). In questo passaggio l’attenzione dell’autore nello spiegare l’equilibrio tra cinema più commerciale e più autoriale nel mercato americano, permette di consolidare tale pensiero. Poi è il turno di Rocco e i suoi fratelli, de L’avventura di Antonioni e di come quest’ultimo sia il primo regista italiano che decide di lavorare nel sistema di Hollywood a fronte dei dinieghi dei suoi predecessori. Ecco quindi che il libro analizza Blow-up e poi si sofferma a raccontare dell’arrivo negli Stati Uniti di Pasolini e de Il Vangelo secondo Matteo e la sua peculiare distribuzione che conferma l’autorialità del cinema italiano. Garofalo a proposito del regista italiano si sofferma sul rapporto con gli Stati Uniti. E mentre 8 1/2 di Fellini incanta il pubblico americano, arriva Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e la critica americana si divide nettamente. A questo punto del racconto cinematografico-sociale-economico di Garofalo si consolida la tesi della pubblicazione, ossia porre in evidenza i meccanismi economici e ideologici della ricezione del cinema europeo e come il gusto del cinema americano cambia proprio sulla base delle ricerche filmiche di quello italiano.

Terzo capitolo, arriva il cinema di genere, quello più popolare. I registi e i film citati sono diversi e molto intrecciati tra loro e il presupposto, anzi l’interrogativo, principale del capitolo è in che modo questi film che si basano sulla tipizzazione di specifici caratteri nazionali riescano a circolare anche all’estero ottenendo risultati soddisfacenti. Una parte della risposta risiede anche nel lavoro molto incessante dei produttori italiani sul suolo americano e della grande smania della corsa agli Oscar. In questa fase, inoltre, di proposta cinematografica molto interesse viene riservato dalla critica americana agli attori, soprattutto alla coppia MastroianniLoren e nella lettura delle critiche si evince come la complessità della commedia all’italiana intesa come un genere non del tutto definibile, rimetta in discussione la differenza tra cinema alto e cinema basso sia nell’industria che nella cultura. Tra i titoli più discussioni e più importanti di questi anni (Sessanta-Settanta) ci sono Mondo cane, un documentario che apre all’idea di questo genere negli Stati Uniti e a una serie di imitiazioni e titoli simili sullo stesso tema; poi arriva la Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo apprezzato per il tema ma anche per la forma registica; e i film di Elio Petri e Francesco Rosi che nel loro particolare parlano un linguaggio universale tanto che la critica americana conia il termine “neo-politicism”, come riportato dall’autore. Arriva, successivamente, il tempo dei western all’italiana e parlando di questi film Garofalo sottolinea come anche in Italia finalmente si cominci a pensare a produzioni finalizzate al grande pubblico da sfruttare commercialmente. Il principale interprete è sicuramente Sergio Leone che la critica americana non ama particolarmente e stronca categoricamente quasi tutti i suoi film. Garofalo a tal proposito scrive a p. 155: «Il western di Leone non funzionava negli Stati Uniti perché si manifesta come qualcosa di altro rispetto alle aspettative della critica, ancora troppo ancorate a un certo immaginario del cinema europeo, inteso soprattutto come un veicolo autoriale anticlassico». Quindi se il pubblico e l’industria cinematografica americana considerano il cinema europeo e italiano ancora legato a un’idea di autore, questa idea non si concretizza al contrario e ciò è spiegato nel capitolo successivo. Il capitolo terzo si chiude con l’esperienza dell’horror di Dario Argento e non solo, ben apprezzato in America. Il capitolo quarto si focalizza sull’americanizzazione del cinema italiano, giustificando così la frase precedente, ossia che in Italia giunge il momento in cui il mercato americano diviene un canale necessario da navigare per ottenere successo anche a costo di svilire l’idea autoriale del cinema per aprirsi a canoni di ripresa più americani. Negli anni Settanta arrivano negli Stati Uniti i film di Liliana Cavani, di Lina Wertmüller; poi il libro affronta l’agonia produttiva e realizzativa di C’era una volta in America, e sopratutto prende in esame l’attività dei fratelli Weinstein che puntano massicciamente sul nuovo mercato del film straniero in America tra gli anni Ottanta e Novanta.

La loro idea è di svincolare il cinema italiano dalle art house promuovendolo attraverso la televisione e distribuendolo in moltissime città. Questo come si spiega? A questo punto del libro, Garofalo ha raccontato in maniera esaustiva come, nonostante alcuni bassi, il cinema italiano si sia consolidato sul gusto cinefilo americano. È giunto il momento di renderlo ancora più redditizio commercialmente e farlo arrivare a molti. La strategia di marketing, spiega molto bene l’autore del libro, si fonda sull’idea di presentare il film straniero come fortemente connotato nel territorio in cui è prodotto, che magari non ha reso molto bene nel rispettivo Paese, seppur sia un film universalmente comprensibile e chiaro. Ecco che quindi Nuovo Cinema Paradiso, Mediterraneo, Il postino e La vita è bella (i maggiori successi di quegli anni) sono adattati al mercato americano soprattutto nei contenuti e addirittura rimontati. Nella lettura del libro, si scopre che il film di Benigni è stato inserito nel concorso del Festival di Cannes dal direttore Gilles Jacob a forza dai Weinstein proprio per ottemperare alla loro strategia di marketing (noi ci domandiamo, quindi, se anche dietro il Gran Premio della Giuria non ci fosse lo zampino dei produttori e forse anche la successiva vittoria gli Oscar). Così si consolida e si afferma l’americanizzazione del cinema italiano. Sul solco di questa teoria la trattazione del libro cita Io ballo da sola di Bertolucci. Alla fine, la conclusione. Qui Garofalo analizza il cinema italiano negli Stati Uniti negli anni Duemila in cui cambia il concetto di cinema d’autore proveniente dall’Europa che sulla spinta dei mercati internazionali, supera la divisione consolidata tra cinema popolare, poco esportabile che va bene sul proprio territorio, e cinema d’autore pensato per il pubblico di nicchia. In questa cornice l’autore identifica il cinema italiano come ammalato dalla sindrome dell’autore ovvero: «uno stato di catatonia produttiva e creativa in cui si continuano a scrivere, finanziare, girare, distribuire film d’autore indirizzati a circuiti internazionali di nicchia, come le art house, che tuttavia non esistono quasi più» p.220. Di seguito Garofalo riporta incassi e ricezione di film come Pani e tulipani di Silvio Soldini, La bestia nel cuore di Cristina Comencini e porta l’esempio di Luca Guadagnino e l’americanizzazione del suo cinema. Poi ovviamente è analizzato anche il cinema di Sorrentino in particolare le produzioni dopo l’Oscar con La grande bellezza, il passaggio di Gianfranco Rosi e Jonas Carpignano (accomunati dalla necessità di indagine del reale) e Matteo Garrone con Gomorra. In queste pagine l’autore è abbastanza netto nel giudizio nei confronti del cinema italiano che non presenta una traccia precisa poetica di approfondimento comune a tutti questi interpreti, bensì si localizza in una voglia di autorialità singolare. Inoltre cambiano ancora le strategie di promozione e distribuzione anche queste non più accordate verso una linea comune. La prospettiva in questa situazione parcellizata, risiede nella serialità e nella sua dimensione di produzione e distribuzione integrati tra cinema e televisione che comporta un ripensamento dei luoghi e dei tempi e modi di consumo più vicini all’audio visivo contemporaneo. Questo è lo sguardo dell’autore sul presente. 

Facciamo un paio di considerazioni. Avete già compreso il nostro giudizio sul libro scritto da Garofalo, perché qualcosa è trapelato nella nostra analisi. Il libro si legge con estrema facilità sia per la lingua, che per la suddivisione dei contenuti, che per la chiarezza espositiva. Ciò gli permette di aprirsi agli amanti del cinema e a chi non conosce. Lo sguardo dell’autore, inoltre, è lucido, preciso ed esaustivo nella trasmissione di un apparato di conoscenze ampio e articolato che sollecita anche la curiosità. L’altro elemento, forse il più importante, da porre in risalto di C’era una volta in America è la traccia del cinema italiano nel corso del Novecento e di questi primi anni del XXI secolo. Un cinema che partendo da un’esigenza reale, come il neorealismo, si tramuta e si approfondisce nelle tematiche ma soprattutto nel sistema industriale. Il terreno offerto dagli Stati Uniti con tutte le sue diversità e somiglianze di società e industria, aiuta molto questa evoluzione a tal punto da appiattirsi alla fine del secolo. Il nuovo millennio ha lanciato un allarme per la mancanza di innovazione di pensiero non tanto nelle idee dei film, ma in particolare in come sono comunicati. Su questo asse di analisi e sintesi tra industria-commercio-idee-società risiede l’aspetto più accattivante e di curiosità del libro di Garofalo, perché attraverso questo si capisce molto bene lo stato del cinema nostrano di ieri e di oggi. 

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