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In un villaggio montano in cui non prende il telefono da nessuna parte – dove quindi non ci sono le notifiche, le distrazioni né “la soave melodia degli accolli” – Zero appunto ripercorre a ritroso non solo la storia della sua famiglia, con onte ataviche che risalgono persino alla seconda guerra mondiale, ma anche la biografia stessa di un padre solo apparentemente mite e ritroso, che invece nasconde esperienze battagliere e soprattutto, tra le righe, un amore per il figlio che non trova le parole per esprimersi ma è fatto di getti nascosti e sotterranei. Sullo sfondo i “redneck veneti” sempre pronti alla rissa e la figura di Marla, protettrice di decenni andati e collegamento con quel passato enigmatico, la cui benda all’occhio la rende subito una figura quasi alla David Lynch.
Uno stile unico fatto di contaminazioni
Com’è tipico delle opere di Zerocalcare, Quando muori resta a me è costruito su un dialogo continuo tra dentro e fuori: il fuori delle storie che accadono agli altri, il dentro del percorso più intimo e tormentato dell’autore stesso. In particolare in questa storia Zero vede l’affacciarsi della vita adulta come un traguardo inevitabile, anzi forse già superato, da qui il terrore che il mantra “Non c’è stato il tempo ancora di far succedere altre cose”, oltre quelle mitizzate della giovinezza, sia solo una menzogna per proteggersi dalla stasi. E proprio come nel paese montano in cui “la Montagna non dimentica”, decifrare il passato diventa l’unico modo per sbloccare il presente, per sfuggire ai “pensieri intrusivi” e quindi sbloccare sé stessi.
Sebbene i temi più ampi (quelli sociali, quelli generazionali) siano ovviamente presenti anche qui, questo sembra il libro più personale di Zerocalcare, quello in cui l’autobiografia si fa assoluta e significativa di per sé. Che lo stesso autore si senta a un bivio è evidente dalla continua autoanalisi, dell’ironia fatta sui propri traguardi (la serie Netflix, il merchandising, le ospitate da Fazio) e sulla continua necessità di dimostrare qualcosa soprattutto a sé stesso. Non è un caso che la pregnanza della storia permetta di contaminare i generi, oltre i soliti stilemi: le citazioni pop tipiche della sua narrativa sono in qualche modo contenute, controllate, in favore di un lirismo che sfocia nel dramma storico, nel thriller e persino nell’horror. In fondo, questo è anche il suo libro più cinematografico.
Non che non abbondi anche la solita ironia zerocalcariana. Solo che, come padre e figlio che non riescono a comunicare quasi fosse una maledizione autoritaria, anche questo racconto si asciuga a far da pari alla “pietra delle Dolomiti che non chiede mai”, diventa più asciutto, essenziale e per questo ancora più tagliente. La comicità così come la drammaticità sono qui strumenti di una narrazione indirizzata a una dimensione altra e più altra, quella dell’emotività, che scoppia commovente nelle ultime pagine. Sembra anche che Zerocalcare, titolo dopo titolo, voglia percorrere una strada che lo porti sempre più vicino alla sua verità più autentica, a un rifugio emotivo molto intimo dopo essersi dato molto al mondo. Eccolo spiegato, quel Zero-Michele così verosimile, così realistico che abbiamo visto allo specchio. Cosa sono del resto tutte le sue opere, e Quando muori resta a me a maggior ragione, se non degli specchi franti da ricomporre?