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Quando uscì American Beauty in sala, esattamente 25 anni fa, la critica americana impazzì letteralmente per ciò che Sam Mendes gli aveva messo di fronte. Fu indicato come il miglior film dell’anno, avviandosi verso un trionfo al botteghino e alla serata dell’Academy, con ben 5 Premi Oscar tra cui Miglior Film, Regia, Attore Protagonista per uno stratosferico Kevin Spacey e Sceneggiatura. A distanza di un quarto di secolo, è giusto riguardare ad American Beauty e chiedersi cosa sia rimasto di tanta gloria.
Il film simbolo della fine di una grande illusione
American Beauty non nasceva né da un romanzo di successo né dall’idea di qualche produttore, ma da Alan Ball, che dopo aver lavorato a tantissime sitcom e commedie, preparò una sceneggiatura dove, fin dall’inizio, il suo obiettivo era cercare di creare un ritratto spietato, cinico, divertente ma profondo della società americana. Il progetto vide inaspettatamente l’appoggio decisivo da parte di Steven Spielberg e della sua DreamWorks. Spielberg di buone idee se ne intendeva, e vi vide probabilmente qualcosa che aveva già ammirato in American Graffiti del suo amico George Lucas, in America Oggi del grande Robert Altman o Paris, Texas di Wim Wenders: il ritratto di un’epoca e un momento particolare della società e della famiglia americane. Alla regia venne messo lui, Sam Mendes, sconosciuto regista teatrale inglese, mai finito sul grande schermo prima di allora.
Sam Mendes però fu capace di rendere questo mix tra commedia, indie, dramma familiare, un affresco intimo di incredibile bellezza a suggestione. Fu un grande azzardo sceglierlo, uno dei tanti di un film che quando esce in sala per la prima volta, il 15 settembre 1999, fa letteralmente impazzire il pubblico e la critica. Dentro c’è la rappresentazione di una realtà che tutti hanno sotto gli occhi, lo stridere dell’american dream ottimista degli anni ’90. Ma la prima, geniale caratteristica di American Beauty, è quella di recuperare gran parte di quel bagaglio narrativo ed estetico della sit-com, protagonista della narrazione popolare di quegli anni. Non si può pensare in effetti ad altro nel momento in cui seguiamo Kevin Spacey nei panni di Lester Burnham, classico esemplare della middle class, in piena crisi di mezza età, che ci dice subito che è morto, ma capiamo che prima ha imparato di nuovo a vivere.
Lester conduce una vita che per sua stessa ammissione priva di bellezza e significato. Il suo matrimonio con Carolyn (Annette Bening) è morto da anni, la figlia Jane (Thora Birch) li detesta. Tutto cambia nel momento in cui Jane si esibisce annoiata con le altre cheerleaders, e Lester si rende conto che la loro presenza è sgradita. La lite con la moglie lascia il posto allo stupore nel momento in cui nota tra le cheerleaders Angela Hayes (Mena Suvari), splendida fanciulla ammiccante. Da quel momento, esplode lui una volontà di ribellione in cui per la riscoperta di pulsioni sessuali giovanili, della trasgressione, si accompagna al rifiuto di ogni regola o supposta tale che fin ad allora ha accettato. Si licenzia dal lavoro dopo aver ricattato il suo capo, va a lavorare in un fast food, comincia a fumare marijuana fornitagli da Ricky (Wes Bentley), il figlio del vicino di casa, il dispotico e reazionario ex colonnello Frank Fitts (Chris Cooper).
American Beauty si affida ad un’estetica che Sam Mendes rende un’evoluzione della caratterizzazione del focolare domestico che l’ha già citata sitcom aveva elevato ad ecosistema narrativo dominante. Fateci caso, il film ci fa camminare attraverso i luoghi simbolo della società americana e della narrazione cinematografica ma soprattutto televisiva di quegli anni. Abbiamo il liceo per ragazzi che ci vengono descritti come fragili, depressi, sovente solitari, ma ricchi di potenzialità, con una smania di vivere che non trova sbocchi. Abbiamo i luoghi di lavoro dove Lester e Carolyn si sentono asfissiati, il fast food, e poi le case, case che dentro cui si nasconde una mancanza di empatia e una incomunicabilità totali. Lo dice Lester, lo ammette infine la moglie, materialista e falsa, ma tra i due c’è ancora qualcosa, anche se sopito, affogato da una visione della vita diametralmente opposta.
Oltre l’apparenza e la materialità, recuperando il senso delle cose
American Beauty è armato di una sceneggiatura frutto di un lavoro incredibile, in cui ogni dialogo, frase, ogni scena e battaglia verbale, confessione, è un perla, ricca di significati e che ci porta a guardare alla società degli anni ‘90 per quello che era: il trionfo dell’apparenza. Il film è pervaso dalla negazione dell’entusiasmo in cui la società in quegli anni si beava, nascondendo l’omologazione e l’intolleranza. C’è qualcosa che cova, un senso di tragedia, di fallimento e inconsistenza, ma anche di contrapposizione. Questo riguarda non solo Lester e Carolyn, che verrà colta in fragrante di adulterio, ma anche nel fatto che le diverse generazioni non riescono minimamente a trovare un terreno comune. Chris Cooper rende il suo ex colonnello Fitts, il simbolo stesso di quell’America reazionaria, bacchettona, ipocrita, violenta e omofoba, che di lì a poco troverà nel ciclo della Presidenza di George W. Bush la propria riscossa.