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La giustizia italiana riapre il caso della nave Diciotti. A sette anni dal controverso fermo della nave della Guardia Costiera con 190 migranti a bordo, le Sezioni Unite della Cassazione hanno riconosciuto il diritto al risarcimento per la privazione della libertà subita per dieci giorni. L’ordinanza, depositata il 6 marzo 2025, rappresenta un passaggio decisivo, ma non la conclusione della vicenda: la Suprema Corte ha stabilito che lo Stato è tenuto a risarcire i migranti, ribaltando la precedente decisione della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto le loro richieste. Il caso tornerà ora davanti alla stessa Corte d’Appello, con un nuovo collegio di giudici incaricato di determinare l’entità del risarcimento per ciascun migrante. Sebbene il verdetto finale non sia ancora stato emesso, questa pronuncia segna un punto fermo nel bilanciamento tra le prerogative del potere esecutivo e il rispetto dei diritti fondamentali della persona, indipendentemente da nazionalità o status giuridico.
Migranti, il caso della nave Diciotti e i principi di diritto
La vicenda risale all’agosto 2018, durante il primo governo Conte, quando la nave Diciotti soccorse 190 persone nelle acque al largo di Malta. L’episodio si inseriva nella politica dei “porti chiusi”, cioè il rifiuto di autorizzare lo sbarco immediato dei migranti in attesa di accordi con altri paesi europei. Le autorità italiane intervennero il 16 agosto quando il barcone nella zona SAR maltese (area di ricerca e soccorso di responsabilità maltese) rischiava di affondare. Nonostante l’arrivo nel porto di Catania il 20 agosto, il comandante ricevette l’ordine ministeriale di non far scendere i migranti, provenienti dall’Eritrea, paese con regime dittatoriale. Lo sbarco fu autorizzato solo il 26 agosto, dopo numerosi appelli umanitari. La procura di Agrigento aprì un’indagine ipotizzando il reato di sequestro di persona aggravato.
Il caso della nave Diciotti si è sviluppato su due fronti giudiziari paralleli. In ambito penale, la procura di Agrigento aprì un’indagine nei confronti dell’allora ministro dell’Interno Salvini, accusandolo di sequestro di persona. Gli inquirenti ritenevano che il titolare del Viminale, competente per le politiche migratorie, avesse deliberatamente impedito lo sbarco dei migranti, privandoli della libertà personale. Nonostante il tribunale dei ministri avesse ritenuto valide le accuse, il Senato nel marzo 2019 negò l’autorizzazione a processarlo, come richiesto dalla Costituzione per i reati ministeriali, chiudendo così la vicenda penale. Sul versante civile, invece, il percorso è proseguito: i migranti coinvolti nella vicenda hanno intrapreso un’azione legale contro lo stato italiano chiedendo un risarcimento per i danni morali subiti durante la detenzione sulla nave. Ma sia il tribunale ordinario che la Corte d’Appello di Roma avevano respinto le loro richieste, sostenendo che non ci fosse colpa dello Stato. Ora la Cassazione ha stabilito invece che tenere le persone bloccate sulla nave ha violato diritti umani fondamentali inderogabili.
La sentenza
La Cassazione ha respinto la principale linea difensiva del governo, che sosteneva che la decisione di bloccare lo sbarco fosse un “atto politico” e quindi non giudicabile dai tribunali. I giudici hanno spiegato che mentre alcune decisioni strategiche dello Stato (come dichiarare guerra o firmare un trattato) sono effettivamente al di fuori del controllo giudiziario, la scelta di impedire lo sbarco ai migranti era invece un normale provvedimento amministrativo. Come tale, questa decisione doveva rispettare tutte le leggi, comprese quelle sulla protezione dei diritti umani. Un punto centrale dell’ordinanza riguarda il soccorso in mare, riconosciuto come un dovere assoluto che viene prima di qualsiasi politica contro l’immigrazione irregolare. Inoltre, la Cassazione ha ricordato che l’Italia ha firmato importanti trattati internazionali (Solas sulla sicurezza in mare, Sar sul soccorso, Unclos sul diritto marittimo) che, secondo la nostra Costituzione, hanno un peso maggiore delle normali leggi italiane e non possono essere ignorate per ragioni politiche.
Le Sezioni Unite hanno poi precisato che lo sbarco deve avvenire “nel più breve tempo possibile” in un “luogo sicuro”. La discrezionalità degli Stati si limita alla scelta del porto, ma non può giustificare il rifiuto dello sbarco. La Cassazione ha infine chiarito che il trattenimento a bordo non era un’“espulsione” né una misura contro l’“ingresso illegale”, ma una violazione della libertà personale tutelata dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ora la Corte d’Appello di Roma dovrà quantificare i risarcimenti.