Questo articolo è stato pubblicato da questo sito
Per il resto, la quasi totalità delle atlete italiane è inquadrata come dilettante, costretta ad accettare contratti senza garanzie assicurative o contributive. E anche per questo un bel pezzo del sistema sportivo italiano è fortemente dipendente dai gruppi delle forze armate, dove atleti e atlete vengono formalmente inquadrati nei ranghi, ottengono uno stipendio da ispettori, marescialli o appuntati con relative tutele, e possono dedicarsi alla loro disciplina.
C’è infatti da ricordare che anche per gli uomini il professionismo è cosa abbastanza rara: solo cinque federazioni (calcio fino alla Lega Pro, basket solo A1, ciclismo, golf e pugilato) lo riconoscono. In tutti gli altri casi gli sportivi sono appunto dilettanti: il loro lavoro è lo sport ma il riconoscimento è spesso sotto forma di rimborsi o accordi molto deboli, per lo più scritture private che nel caso femminile escludono categoricamente la maternità. Solo i più celebri se la cavano con le sponsorizzazioni. Le storie relativamente recenti delle pallavoliste Lara Lugli e, prima, Carli Ellen Lloyd sono solo la punta dell’iceberg della discriminazione.
Mancanza di fondi
I fondi della riforma dello sport, a cui la Figc di Gabriele Gravina ha attinto per sostenere la transizione, sono scarsi (3,9 milioni per il 2021 e 2022): se li mangerà appunto tutti il calcio e considerando che i decreti prevedono che non possano esistere per la stessa disciplina un professionismo maschile e un dilettantismo femminile, il paradosso è che se quel fondo non verrà rimpolpato, nessuna federazione in cui sia uomini che donne sono dilettanti, cioè 40 su 45, avrà interesse a compiere quel passo. Tant’è che nessuna ha presentato domanda per accedere ai fondi.
A prescindere dal seguito, dall’interesse, dal pubblico, dalle tendenze, dai 90mila del Camp Nou per il clásico del mese scorso fra Barcellona e Real Madrid che contribuiscono a rivoluzionare la percezione delle donne nello sport, i quarant’anni trascorsi dalla legge del 1981 bastano da soli a ricordarci in che paese abbiamo vissuto e ancora viviamo. Il Coni e le federazioni non hanno mai deliberato quelle modifiche ai propri regolamenti che avrebbero consentito di estendere gli effetti di quella legge alle atlete, costringendo il legislatore a tornare sul tema anche se in clamoroso ritardo, timidamente e al solito con dotazioni insufficienti.
La lacuna, che dai prossimi mesi e solo nel calcio sarà un po’ meno profonda, riguarda fra l’altro tutte le figure del mondo sportivo: non solo le atlete ma anche le allenatrici, le direttrici sportive, le istruttrici. Si tratta di una ferita profondissima non solo alla loro dignità ma anche alle potenzialità per la crescita del sistema sportivo italiano che, considerando il punto di partenza, fin troppi traguardi raggiunge nelle competizioni internazionali e spesso solo grazie alla stampella delle forze armate.