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Al coro “Go to Hell, Shell”, “Va all’inferno, Shell”, cantato sulle note della celebre Hit the Road Jack di Ray Charles, circa 100 attivisti per il clima hanno interrotto l’assemblea annuale degli azionisti del colosso petrolifero in corso a Londra lo scorso maggio, per chiedere la fine dell’estrazione di fonti fossili e il rispetto dei patti stipulati in passato per la decarbonizzazione della filiera energetica globale. Ci avevano visto lungo. Di lì a poco infatti, attorno alla metà di giugno, l’azienda si è aggiunta alla lunga lista di compagnie di combustibili fossili – tra le quali per esempio Bp e Total – che stanno ridimensionando i loro impegni sul cambiamento climatico per aumentare la quota di utile da pagare ai propri azionisti.
La promessa iniziale della multinazionale britannica era di tagliare la produzione annuale di petrolio ogni anno per il resto del decennio. In un piano strategico pubblicato nel 2021 aveva infatti affermato di voler operare “una riduzione graduale di circa l’1-2% ogni anno”, e in un discorso del 2022 l’amministratore delegato Ben van Beurden aveva spiazzato tutti – attivisti e investitori – affermando di voler raggiungere lo zero netto di emissioni entro la metà del secolo. Poi però, ingolosita dai potenziali profitti futuri, Shell ha fatto inversione di marcia. Nel 2022 il colosso ha totalizzato la somma record di 36 miliardi di euro, la più alta mai raggiunta in 115 anni di storia, e la prospettiva futura – seppur a breve termine – di una crescente domanda di energia nel mondo dovuta in particolare alla corsa alle scorte imposta dall’incertezza del prolungamento del conflitto in Ucraina ha convinto il nuovo amministratore delegato Wael Sawan e il suo team a rivedere i patti.
L’inversione di marcia sul fossile
Shell ora afferma che la produzione rimarrà stabile fino al 2030, mentre tra il 2023 e il 2035 investirà 40 miliardi di dollari nella produzione di petrolio e gas, aprendo nuovi siti di estrazione. Il tutto in barba agli avvertimenti dell’Agenzia internazionale dell’energia, secondo la quale la creazione di nuovi progetti violerebbe i limiti concordati a livello internazionale sul riscaldamento globale. “Shell sta dando fuoco alla nostra casa per alimentare i suoi osceni profitti”, dice Joanna Warrington di Fossil Free London, uno dei gruppi di attivisti che ha organizzato il blitz all’interno dell’ExCeL Centre nella zona est di Londra lo scorso maggio.
Per giustificare il dietrofront, l’azienda ha rivendicato l’investimento da circa 15 miliardi fatto in
“prodotti a basse emissioni di carbonio” come biocarburanti e idrogeno e nella cattura e stoccaggio della CO2. Inoltre, Shell sostiene di aver già raggiunto i suoi obiettivi di riduzione della produzione per il resto del decennio, dopo aver venduto nel 2021 al competitor ConocoPhillips le sue quote di partecipazione nel giacimento petrolifero Permian Basin in Texas nel 2021. Come se quel pozzo non abbia continuato a produrre per conto di altri.
Una questione di responsabilità (negata)
“Il nostro obiettivo di una riduzione della produzione di petrolio entro il 2030 non è cambiato. L’abbiamo appena raggiunto con otto anni di anticipo”, è la versione di un portavoce dell’azienda. Un’indagine del Congresso degli Stati Uniti sulla disinformazione climatica risalente allo scorso settembre ha rivelato oltre 200 pagine di messaggi interni tra lobbisti e dipendenti di Shell ed altre compagnie fossili come Chevron ed ExxonMobil, nelle quali i componenti della multinazionale venivano invitati ad inquadrare l’obiettivo net zero come “un’ambizione collettiva per il mondo” piuttosto che come un “traguardo di Shell”.
“Petrolio e gas continueranno a svolgere un ruolo cruciale nel sistema energetico per molto tempo a venire”, è il mantra di Sawan, che parlando con gli investitori ha assicurato: “È fondamentale che il mondo eviti di smantellare l’attuale sistema energetico più velocemente di quanto siamo in grado di costruire il sistema energetico pulito del futuro”.