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Dan McFadden
È la celebrazione definitiva della vittoria sull’Unione Sovietica, ballando sopra il suo cadavere: non solo gli americani sono arrivati sulla Luna per primi, ma ci sono arrivati (secondo il film) perché erano un paese capitalista. E la protagonista è essa stessa l’incarnazione del capitalismo, ne ha tutte le caratteristiche: è bella, è sexy, è desiderabile, vende piacere, vende un mondo di sogni, è pronta a mentire a tutti per interesse, non accetta mai un “no” come risposta e, se pagata, fa qualsiasi cosa. Scarlett Johansson, da attrice, vende a noi la donna che sa vendere bene. C’è poi la controparte maschile, Channing Tatum, ingegnere tutto d’un pezzo della Nasa che vede di cattivo occhio tutti questi lustrini e questo marketing, perché conta solo la missione, ma che lentamente sarà conquistato da questa donna irresistibile e ovviamente (visto che sono la stessa cosa) dall’idea di vendere la missione al paese.
Quel primo livello, quello della musica swing da big band, degli sguardi allusivi, delle operazioni romantiche e delle schermaglie che portano al bacio, è perfetto. Ma è il secondo che conquista davvero. Perché già non è semplice fare una commedia romantica fatta bene (oggi poi!), ma ancora di più lo è creare i presupposti per una celebrazione del capitalismo che forse non è tale. Perché, arrivato alla fine, Fly Me to the Moon è anche una gigantesca apologia della menzogna e delle fake news fatte circolare per ottenere un obiettivo superiore, e il film stesso è il primo a mettere nello spettatore il dubbio che davvero questa convinzione dei personaggi che tutto si può fare per battere i russi sia giusta. La bravura di Scarlett Johansson è di dare a questo personaggio una tenacia un filo oltre il giusto. È pronta a diventare tutto quel che serve per fare soldi, senza veri ideali che non siano la conquista dell’obiettivo. Senza etica e morale. È efficace (che è uno dei grandi miti americani) ma così tanto che fa venire qualche domanda.