mercoledì, Settembre 3, 2025

A House of Dynamite di Kathryn Bigelow è l'unico film possibile sulla minaccia nucleare

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Questo è senza nessun dubbio il film più difficile da scrivere visto in questo festival di Venezia: un dispositivo di tensione che è anche un continuo di sigle, dipartimenti, linguaggio tecnico balistico, stati, arsenali, informazioni, dati, nomi, procedure e intrecci di potere da tenere a mente, di cui lo spettatore non sa nulla, e che tuttavia risultano di una chiarezza estrema. È il grande dono del cinema americano al linguaggio dei film: una chiarezza espositiva che non ha pari. E così, grazie allo sceneggiatore Noah Oppenheim (quello di Divergent e Maze Runner ma anche di Zero Day), Kathryn Bigelow riesce a fare quello che voleva, mostrare nella maniera più esatta, dettagliata e tecnica cosa accadrebbe se ci fosse un attacco nucleare e come verrebbero prese le decisioni più importanti. A noi, invece, importa più che altro come lo mostri: con la sua passione per l’adrenalina.

La storia è raccontata tre volte, cioè per tre volte vediamo i medesimi 25 minuti (che sullo schermo passano in quasi tempo reale, occupando poco più di 30 minuti ogni volta): quelli dalla partenza della testata nucleare alla decisione del presidente. Li vediamo prima dal punto di vista dei tecnici, che rilevano il missile; poi dal punto di vista dei diplomatici, che in quei minuti cercano di contattare le grandi superpotenze per capire se è una loro testata quella in volo e comprendere le loro intenzioni; infine dal punto di vista del presidente degli Stati Uniti, che deve prendere l’ultima decisione. Poteva facilmente essere noioso, specialmente al terzo passaggio sulle stesse identiche situazioni, invece ogni volta l’adrenalina del momento è tale che quei 25 minuti sembrano molti di più, come quando la tensione dilata il tempo. Kathryn Bigelow ha 73 ma il ritmo di una ragazzina.

Netflix

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