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La prima cosa sorprendente di Dead Man’s Wire è che racconta una storia vera. La mattina dell’8 febbraio 1977 tale Anthony Kiritsis, detto Tony, entrò nell’ufficio di Richard O. Hall, presidente della Meridian Mortgage Company, e lo prese in ostaggio. Come? Con la bizzarra quanto inquietante modalità che il titolo anticipa: un cavo attorno al collo, attaccato a un fucile a canne mozze calibro 12 e teso dal grilletto senza sicura. L’obiettivo non era tanto chiedere l’estinzione del suo debito – e l’immunità – ma soprattutto delle scuse personali da parte degli Hall per averlo truffato e «dissanguato». Gus Van Sant torna dopo anni alla regia cinematografica (dopo la serie Feud) per trasformare una piccola storia particolare in una metafora universale: alla regia firma Dead Man’s Wire, una storia di ribellione di uno sfruttato e umiliato del sistema che, stanco di tante umiliazione («mi hanno preso per culo per anni»), decide di reagire. Uno scontro alla Davide contro Golia a cui ci si appassiona sin dal primo istante.
Che la sua sia una “over reaction” e che si sia spinto troppo in là è chiaro, Van Sant non intende certo farne un’agiografia, usa l’umorismo intelligentemente per smorzare le scene più drammatiche. Bill Skarsgård e Dacre Montgomery fanno un ottimo lavoro nell’interpretare carnefice e vittima, due ruoli chiari – uno è col fucile, l’altro appeso a un filo – e tuttavia costantemente ribaltati. Al pubblico è chiaro chi sia la vera vittima di un sopruso economico che lo ha portato sul lastrico, fino a compiere un gesto tanto estremo. Nei panni del vero villain, il magnate sbruffone e per nulla empatico con la sorte del figlio (una sorta di Logan Roy di Succession), troviamo un gigantesco Al Pacino, che delizia il pubblico con l’ennesima performance superlativa. Ci sono poi Colman Domingo e Myha’la Herrold in due ruoli preziosi: uno è Dj Fred, la voce più calda e zen di Indianapolis che giocherà un ruolo importante nella contrattazione e liberazione dell’ostaggio, l’altra è una giornalista stufa di essere relegata a servizi di serie b e pronta a sfruttare la ribellione di Kiritsis, per puntare finalmente alla prima serata (e a un ruolo da corrispondente senior).
Incredibilmente fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia – meritava senza dubbio di essere nella competizione ufficiale -, questa storia di ribellioni multiple dal basso si configura come una godibile black comedy, capace di intrattenere, far sorridere e riflettere sul sinistro strapotere di certe aziende miliardarie – specie quella dei prestiti – in grado di rovinare per sempre, con le loro clausole e condizioni impossibili, intere esistenze. Come quella del memorabile antieroe di questo film, per cui risulta impossibile non fare il tifo fino alla fine.