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Come si racconta la morte di Emilio Fede? Dei morti non si parla male (a meno che non siate Bette Davis). Anzi ultimamente la tendenza, guidata soprattutto da una dilagante Fomo social, è quella di parlare bene, anzi benissimo di chiunque. Recentemente un tentativo di sfuggire all’agiografia dominante era stato fatto con Pippo Baudo: poco dopo la sua morte c’è chi aveva provato a sottolineare il potente conservatorismo democristiano che aveva caratterizzato la sua vita e soprattutto la sua presenza televisiva, ma nonostante ciò, a dominare l’opinione pubblica, i giornali e soprattutto il web è stata una celebrazione praticamente unanime delle sue primazie. Un meccanismo, questo, che forse si inceppa di fronte a un’altra morte eccellente delle ultime ore, quella di Fede appunto. Il giornalista si è spento il 2 settembre all’età di 94 anni dopo un rapido peggioramento delle sue condizioni di salute.
Inviato di guerra, giornalista televisivo e poi…
Anche nel suo caso si è giustamente subito corsi a ripercorrere un percorso longevo: dagli anni Rai come inviato di guerra e poi come direttore del Tg1 (dove, si dice, inventò la tv del dolore con la diretta fiume sul povero Alfredino prigioniero in un pozzo) fino alla fondazione di diversi notiziari televisivi (il TgA di Rete A, lo Studio Aperto di Italia 1 inaugurato con la guerra del Golfo), per finire con l’approdo ventennale alla direzione del Tg4, dal 1992. Ma come diceva Picasso, “nell’arte bisogna uccidere il padre”, cioè prima di sovvertirle le regole formali esse vanno conosciute fino in fondo: ed Emilio Fede conosceva tanto a fondo i segreti del giornalismo che buca la schermo da riuscire appunto a ribaltarli completamente.
Accanto alla successione cronologica del suo curriculum di tutto rispetto, infatti, non si può non menzionarne la coda più amara, ricordando la fine poco gloriosa di un giornalista di rango convertito a megafono del berlusconismo più clientelare. I servizi tendenziosi, le pause enfatiche, le immagini impietose degli avversari messi a tutto schermo, i tentativi di camuffare anche le più eclatanti déblacle del centrodestra così come i panegirici di esaltazione dei suoi traguardi: tutti atteggiamenti da tribuna politica più che da telegiornale, anche se molti cercavano già allora di dare una giustificazione che andava sull’empatico. Di Berlusconi Emilio Fede era politicamente, spassionatamente innamorato, tanto da rimanerne alla fine bruciato.
Gli anni Novanta e i momenti memorabili
Ma del Cavaliere Fede non era solo il più solerte dei comunicatori, era anche l’incarnazione plastica del suo panorama valoriale (anche nelle fattezze, date le lampade e i ritocchi estetici innumerevoli): chi è cresciuto tra gli anni Novanta e Duemila non può dimenticare le Meteorine, procaci ma spesso balbettanti annunciatrici meteo mandate in onda nel bel mezzo del tg e ancora prima pescate dall’ampio harem berlusconiano, che dallo spettacolo sconfinava nelle cariche politiche e nei vitalizi passando per le “cene eleganti”. Di lui ricordiamo anche i furiosi fuori onda, in cui spesso rivolgeva ingiurie ai collaboratori a detta sua incapaci (memorabili e tragicomiche le dirette con Paolo Brosio fuori dal Tribunale di Milano per Mani Pulite) oppure lanciava strali divenuti memorabili (“Che figura di merda”, disse dopo aver annunciato in diretta la cattura di uno dei più grandi criminali della storia: lui intendeva Saddam Hussein ma sullo schermo uscì per errore Silvione stesso).
A contribuire alla sua fama, proprio con fuori onda e dietro le quinte sempre coloriti, fu Striscia la notizia di Antonio Ricci, che con Fede su Canale 5 faceva picchi d’ascolto pur alimentando una specie di lotta intestina tra reti Mediaset. Intestina forse fino a un certo punto se pensiamo che quella stessa esposizione contribuì a renderlo ancora di più una popolarissima figura nazionalpopolare, per non dire un meme anti litteram.