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Google ha scongiurato lo scenario peggiore in un’importante causa antitrust avviata dal dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Il giudice Amit Mehta della Corte distrettuale di Washington ha stabilito che il colosso non dovrà vendere il suo browser, Chrome, per ovviare al monopolio illegale che detiene nel settore delle ricerche online. Il tribunale si limiterà a disporre una serie di misure correttive più moderate nei confronti dell’azienda, che dovrà mettere a disposizione dei concorrenti alcuni dati relativi alle ricerche e limitare gli accordi di distribuzione esclusiva.
Ormai più di un anno fa, Google è stata giudicata colpevole di aver violato lo Sherman antitrust act, la prima legge statunitense contro i monopoli e cartelli. Qualche mese fa, il dipartimento di Giustizia ha poi chiesto che al gigante fosse imposta la cessione di Chrome. Tra le altre misure avanzate dal governo rientravano anche lo scorporo di Android, la condivisione della tecnologia di ricerca di Google e l’introduzione di paletti rigidi agli accordi di distribuzione della società.
Cosa c’è nella nuova sentenza contro Google
Mehta tuttavia ha optato per una serie di provvedimenti decisamente meno drastici. La posizione del governo americano era che Chrome ricoprisse un ruolo fondamentale per il monopolio di Google nel settore delle ricerche, mentre l’azienda sosteneva che nessun altro sarebbe stato in grado di gestire il browser e Chromium allo stesso modo. Ora il giudice ora ha stabilito che il ricorso a Chrome da parte di Google come veicolo per la ricerca non è di per sé illegale. Il tribunale ha stabilito che l’accusa “ha esagerato nel chiedere la cessione forzata di questi asset chiave, che Google non ha utilizzato per mettere in atto alcuna restrizione illegale”. In altre parole, l’azienda non dovrà separarsi da Chrome.
La nuova sentenza non vieta a Google di stringere accordi redditizi – come quelli con Apple e Mozilla – ma decreta anche che l’azienda non potrà obbligare nessuno dei suoi partner commerciali a distribuire Search, Chrome, Google Assistant o Gemini. Per fare un esempio concreto, questo significa che il colosso non potrà subordinare l’accesso al Play Store al pre-caricamento delle sue app sui telefoni.
C’è però una buona notizia anche per i rivali di Google. Il tribunale statunitense ha stabilito che l’azienda dovrà fornire alcuni dati relativi agli indici di ricerca e metriche sugli utenti a “concorrenti qualificati”. La decisione potrebbe aiutare motori di ricerca alternativi a migliorare il proprio servizio, nonostante il significativo vantaggio accumulato da Google in termini di dati.
Cosa succede ora
Sebbene la sentenza rappresenti una vittoria piuttosto netta, tecnicamente Google ha comunque perso la causa. Questo non vuol dire però che Mountain View accetterà passivamente l’etichetta di azienda “monopolista”: Google aveva già dichiarato di voler presentare ricorso e ora ha la possibilità di farlo.
I provvedimenti del tribunale dovrebbero essere applicati da un comitato tecnico, che dovrà essere istituito entro 60 giorni e supervisionerà le operazioni dell’azienda per sei anni. È altamente probabile però che che con il ricorso Google chieda anche di sospendere l’ordinanza, una strategia simile a quanto già fatto per un’altra causa, quella intentata da Epic Games (dove l’azienda è uscita sconfitta anche in appello)
È quindi possibile che Google non apporti modifiche alla sua attività per anni, sempre che lo faccia. La società potrebbe anche sottoporre il caso alla Corte suprema. E se un tribunale di grado superiore dovesse ribaltare il verdetto, si sottrarrebbe anche alle misure limitate imposte da Mehta.
Questo articolo è apparso originariamente su Ars Technica.