lunedì, Settembre 29, 2025

Cina e terre rare, tutti i modi in cui Pechino vuole mantenere il controllo mondiale

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C’è un ingrediente che al momento sta giocando un ruolo decisivo nei complicati negoziati commerciali tra Stati Uniti e Cina: le terre rare. La stretta alla loro esportazione è stata una delle principali componenti delle multiformi ritorsioni di Pechino ai dazi imposti da Donald Trump contro i prodotti made in China. Dopo i colloqui di maggio e giugno tra Ginevra e Londra, il governo cinese ha accettato di allentare i divieti e riprendere il flusso delle spedizioni di questi materiali cruciali per industria elettronica, difesa e tecnologia verde. Tanto da ricevere in cambio concessioni significative, a partire dalla rimozione di una serie di divieti sull’export di software tech e i chip per l’intelligenza artificiale di Nvidia.

Ma attenzione. Mentre i colloqui tra le due potenze proseguono e arrivano a un accordo di principio su TikTok, Pechino sta continuando a rafforzare la presa interna sulle sue terre rare, per poter controllare il movimento di qualsiasi loro grammo. Nelle scorse settimane, l’esecutivo di Pechino ha emanato una serie di norme “provvisorie” per rafforzare ulteriormente il controllo sull’estrazione, la fusione e la separazione di questi minerali strategici.

La presa della Cina sulle terre rare

Quote annuali e nuove regole

Il nuovo quadro normativo prevede che le autorità fissino quote annuali per l’estrazione, la fusione e la separazione delle terre rare. Queste quote verranno poi assegnate alle imprese in base a criteri come lo “sviluppo economico“, il livello delle riserve nazionali e la domanda del mercato. A rendere più stringente il sistema è la decisione di includere anche le materie prime importate all’interno delle quote, misura che riduce ulteriormente la disponibilità di minerali per le aziende straniere. Parallelamente, Pechino ha introdotto un sistema di monitoraggio che consente di tracciare ogni oncia di materiale esportato, rendendo di fatto impossibile qualsiasi flusso non controllato dalle autorità.

Nonostante le terre rare non siano davvero così “rare” nel mondo, la Cina produce circa il 60% dei metalli delle terre rare e quasi il 90% dei magneti a esse collegati. Tale posizione dominante è frutto di una strategia avviata decenni fa, quando Pechino decise di puntare su questo settore, accettando costi ambientali e sociali pur di ottenere un vantaggio competitivo. Anche a causa del grande inquinamento causato dall’estrazione e dalla lavorazione, l’Occidente ha a lungo chiuso un occhio di fronte all’esternalizzazione di un settore così importante. Ma, intanto la dipendenza occidentale è diventata di portata enorme: il 94% dei magneti permanenti importati dall’Unione Europea proviene dalla Cina. E nonostante gli sforzi di diversificazione – dagli Stati Uniti all’Australia, fino a nuovi progetti in Svezia ed Estonia – il rischio di una vulnerabilità strutturale resta altissimo.

Una leva negoziale decisiva

Il primato cinese si estende anche al controllo dei principali centri estrattivi esteri. Un esempio è l’Indonesia, che contribuisce a oltre un quarto della produzione globale di nichel, fondamentale per le batterie agli ioni di litio utilizzate nei veicoli elettrici e nello stoccaggio di energia rinnovabile. Nel corso dell’ultimo decennio, la Cina ha investito circa 14,2 miliardi di dollari nel Paese del Sud-Est asiatico, di cui 3,2 miliardi soltanto nel 2022.

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