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Ma il quadro italiano è ben più complesso, perché da sempre intreccia la politica a tutti i livelli e fa di Alitalia, anche privatizzata, un serbatoio di consenso e poltrone. Basti comunque pensare che nell’era pubblica, fra 1974 e 2007, l’ex compagnia aerea di bandiera ha fatto perdere alle casse dello Stato 7,2 miliardi di euro. Altri 2,6 si sono volatilizzati nella breve fase “privata” dal 2007 a oggi. Ogni giorno il vettore vola in perdita di un milione di euro. Insomma, una macchina mangiasoldi che ha bisogno al più presto di un altro aumento di capitale: il quarto in meno di dieci anni, segno di un’azienda che non riesce a tornare in utile e neanche a reggersi in piedi da sola.
Per il momento, fino al nuovo piano industriale, si procede con l’ossigeno iniettato da Etihad e dalle banche azioniste-creditrici. Circa 500 milioni di euro ai quali se ne dovranno aggiungere almeno altrettanti. L’eredità della famosa operazione architettata dal governo di Silvio Berlusconi per garantirne l’italianità all’epoca della possibile cessione a Air France-Klm si fa dunque sentire ancora oggi, nonostante Alitalia sia altra cosa sotto ogni punto di vista. Specialmente in termini strategici, con la scelta di puntare sulle tratte a breve-medio raggio. All’epoca un autentico suicidio in un mercato nazionale e continentale dominato dalle low cost, Ryanair su tutte. Spesso fortemente sostenute. Ecco, dunque, cinque scenari per il futuro della compagnia tricolore.
Cura da cavallo
Quella che si sta prefigurando in questi giorni. E su cui è intervento oggi il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. L’ex compagnia di bandiera “è stata gestita oggettivamente male” ha spiegato a RadioRai. Il ministro non vuole sentire parlare di esuberi prima della presentazione di un piano industriale che delinei un possibile rilancio. In ogni caso del perimetro dei tagli se ne parla da settimane: 1.600 esuberi (ma c’è chi ha scritto perfino il doppio) fra esternalizzazioni e casse integrazione e una drastica riduzione del network di breve-medio raggio, con la messa a terra di diversi velivoli, forse una ventina, e la rimodulazione delle rotte. Intanto Alitalia ha sfruttato la scadenza del contratto per bloccare gli scatti di anzianità di 3.800 dipendenti e taglierà la Fiumicino-Malpensa.
Low cost
Impossibile che Alitalia si trasformi in una low cost. Potrebbe però aprire – come fanno tutti i colossi europei, basti pensare a Lufthansa con Eurowing, Air France-Klm con Transavia o al gruppo Iag che ha raccolto in un unico polo Iberia e Vueling insieme a British Airways – una sua compagnia interna a basso costo che si concentri sulle tratte nazionali ed europee. Offrendo un servizio paragonabile appunto a quello delle low cost, senza fronzoli, vendendo solo il posto. Ma è difficile che possa farlo rendendolo operativo con le risorse ora in pancia, che hanno firmato contratti diversi che andrebbero appunto ridiscussi. Com’è indicato, secondo alcune fonti, nel piano industriale, l’approccio low cost ci sarà ma sarà sviluppato senza una divisione di brand. Semplicemente, si procederà a una rimodulazione dei più redditizi voli a lungo raggio – per esempio ridiscutendo l’alleanza con Delta – sposando per quelli a breve e medio raggio una filosofia del tutto diversa. Un modello sensato. Ma qualche anno fa. Non è detto che si sia ancora in tempo. Un esempio? Ryanair vola con un costo operativo per posto chilometro di circa 3,5 centesimi e il 25% dei ricavi del vettore irlandese arrivano dalle vendite ancillari (bagaglio, pasti). Quello di Alitalia è il doppio.
Fallimento
L’ipotesi meno probabile, se non impossibile dopo la garanzia dell’impegno degli azionisti e del governo. Sotto il fronte occupazionale sarebbe un fatto senza precedenti: i dipendenti sono infatti circa 12mila. Eppure, dopo i costi riversati sulle casse pubbliche, molti italiani non nascondono di augurarsi un simile, drammatico esito della compagnia di bandiera. Divisa fra un azionariato arabo (il 49% di Etihad) che per le norme europee non può formalmente salire oltre quella soglia e uno italiano (51%) che, costituito fondamentalmente da Atlantia, Unicredit, Intesa e Poste, non sembra aver troppa voglia di un nuovo aumento di capitale. Tuttavia le notizie ufficiali raccontano di un vertice al Mise di lunedì scorso nell’ambito del quale i vertici della compagnia e i rappresentanti degli azionisti e delle istituzioni finanziarie coinvolte insieme ai ministri competenti hanno fornito reciproca disponibilità a sostenere il piano industriale in arrivo. Gli eredi dei capitani coraggiosi appaiono intrappolati nella macchina infernale Alitalia.
Lufthansa o dintorni
L’alternativa potrebbe essere l’acquisto del 51% in mano agli italiani, o di una quota inferiore, da parte di un’altra compagnia europea. Magari la tedesca Lufthansa, prima compagnia del Vecchio continente, che ha appena stretto un accordo commerciale di code sharing con la rivale Etihad, che controlla appunto il 49% di Alitalia dall’inizio del 2015 ma che nelle scorribande europee – vedi Air Berlin – ha perso molti soldi. Economicamente, nonostante il danno d’immagine dei frequenti e massicci scioperi, Lufthansa sta bene: nel 2015 i passeggeri sono aumentati dell’1,6% a quasi 108 milioni e l’utile è salito del 55% a 1,8 miliardi di euro. Anche grazie alla strategia delle compagnie locali che grazie alle proprie low cost (vedi sopra) hanno in qualche modo bloccato gli scali tedeschi più importanti da Ryanair & co, che tuttavia ha messo ora nel mirino proprio quei cieli.
Trasformazione in vettore extraUe
Altra ipotesi difficilissima, perché comporterebbe la perdita degli slot, dei trattamenti fiscali e delle tratte e la ridiscussione dei diritti di sorvolo continentali. Cioè l’uscita dalla European Common Aviation Area, il mercato unico europeo dell’aviazione che garantisce la libertà di trasporto aereo nell’intera Ue e in altri otto Paesi come Islanda, Albania e Montenegro. È l’idea di un’Alitalia ridotta ai minimi termini, sfrondata dei debiti e ceduta magari proprio a Etihad. Ma a quel punto priva di qualsiasi interesse commerciale se non legato al brand.
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