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Non c’è niente di più inquietante di ciò che ci somiglia solo fino ad un certo punto, che è umano in molti aspetti ma di fatto non lo è fino in fondo. Quello che letteralmente definiamo disumano è ciò che ci turba di più. Da questo parte Lamb, che alla coppia di genitori islandesi dal sorriso difficile, dalla vita isolata e dalla tragedia facile (una figlia era nata ma è morta), fa capitare una nascita impossibile. Che sia impossibile lo capiamo da come è ripreso l’arrivo di qualcosa nel fienile in cui, il giorno dopo, una pecora indisturbata ha partorito un cucciolo a cui i due manifestano un attaccamento sospetto. Ci vorrà una buona porzione di film per farci vedere che quell’agnello è in realtà una bambina con un corpo umano, ma con la testa e un braccio di agnello.
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Come molto di questo film che si bea della sua distanza e del suo distacco, l’agnello è lì per inquietare e attirare, è ovviamente il simulacro della bambina perduta dai due e il feticcio che la sostituisce ma, con il passare degli anni, diventa anche sempre di più qualcosa di vero, vestita come una bambina sta con i genitori, sempre di più sembra diventare umana. In questo esordio di Valdimar Jóhannsson siamo portati quindi a colmare tutto il percorso dalla repulsione all’accettazione, spaventati e disgustati dal disumano, lentamente a mano a mano che le scene di ordinaria quotidianità ce lo mostrano in operazioni e momenti comuni finiamo per adottarlo come personaggio. Non parla mai l’agnello, ma cominciamo a trasferire su di lui sentimenti, emozioni e sensazioni. Tutto mentre nella casa isolatissima della campagna islandese diverse questioni familiari irrompono, dal fratello scapestrato della madre (Noomi Rapace), alla mamma-pecora, fino alla comparsata finale.