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La seconda parte è un thriller con i toni del noir che segue la folle impresa della madre del pornomane a caccia della donna rea di averla allontanata dall’adorato figlio. Nei suoi panni c’è la strepitosa Yum Hye-Ran di The Glory. Questi episodi raccontano la svolta di Momi in direzione di una vita diversa, nella quale tutti ne ammirano la bellezza e lo fanno dal vivo, senza filtri e schermi di mezzo. Sono i suoi giorni analogici, immersi nell’atmosfera tipica del neonoir e del revenge ma anche governata da sentimenti nuovi. Al posto dell’ambizione e della lussuria, ci sono l’amicizia e l’odio femminile. Persiste il fil rouge dell’ingiustizia e dell’indifferenza della società che conduce la protagonista e il publico verso la sezione finale. Quest’ultima prende un’altra deviazione repentina, un altro colpo di scena, perché Mask Girl si trasforma in un prison drama, in una parabola di redenzione e in una disamina della maternità. La terza incarnazione di Momi ha le fattezze di una delle attrici più belle, brave e sottovalutate del suo paese, Ko Hyun-Jung*.
*La scelta del cast non è casuale, perché la Ko, ex concorrente di Miss Korea, è una vittima di una società reale altrettanto classista e misogina (ha visto la propria vita rovinata da un matrimonio con il rampollo della Samsung, finendo vessata dalla famiglia di lui quasi condotta al suicidio e rimettendoci la carriera).
Le ultime puntate mettono in scena l’ultima sferzata del mondo ai danni di Momi, ma è anche, incredibilmente, il confronto tra tre modi di essere madre: quello anafettivo e distaccato della madre di Momi che è riuscita ad amare solo la nipote perché di aspetto gradevole; quello della genitrice del pornomane, maniacale e malato; e quello assoluto, senza macchia e altruista di Momi per Mimo, sua figlia. Una sola donna – e una donna sola – per tre storie diverse, imperfette e ostiche a livello narrativo come imperfetti e ostici sono i personaggi. Una sola donna al centro di un ritratto solitario circondato dai quadri di tante altre donne – diverse eppure simili -, che assieme si inseriscono in un affresco dipinto con un solo colore: quello dell’ingiustizia della società verso di loro.