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La geografia dello Stretto di Hormuz ne fa un corridoio di cruciale importanza strategica, sia militare che politica. Una vulnerabilità strutturale evidenziata da decenni di tensioni: durante la guerra Iran-Iraq negli anni Ottanta furono attaccate oltre 550 petroliere; negli anni successivi si sono registrati episodi come l’attacco a quattro navi nel 2019 (condotto da sommozzatori che gli Stati Uniti attribuirono all’Iran), il sequestro di petroliere sudcoreane e britanniche, fino alla più recente collisione tra due imbarcazioni, avvenuta il 17 giugno 2025, causata da interferenze sui segnali gps provenienti dalle zone vicine al porto iraniano di Bandar Abbas.
La consapevolezza di questa instabilità ha spinto gli Stati Uniti a mantenere una presenza militare permanente nell’area. Il perno della strategia americana è la Naval Support Activity Bahrain, che ospita circa 9.000 militari e funge da quartier generale della Quinta Flotta, attiva su un’area di oltre 5 milioni di miglia quadrate. La rete di difesa si estende anche ad altre basi strategiche nella regione, tra cui Al Udeid in Qatar – la più grande base aerea Usa in Medio Oriente – e Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti, dove sono dislocati droni e caccia F-35.
Come si chiude uno stretto?
Secondo gli analisti militari, l’Iran non avrebbe bisogno di chiudere fisicamente lo Stretto di Hormuz: basterebbe renderne il passaggio troppo pericoloso ricorrendo a mine navali, sottomarini e missili antinave lanciati dalla costa settentrionale, di cui controlla oltre 100 miglia nautiche. Anche un solo intervento di questo tipo sarebbe sufficiente a bloccare il traffico per giorni, spingendo alle stelle i costi assicurativi. In base alle simulazioni militari, il flusso si arresterebbe già dopo una semplice dichiarazione iraniana sull’avvio delle operazioni di minamento. La produzione di petrolio si fermerebbe nel giro di una settimana e ci vorrebbe almeno un mese per riaprire un corridoio sicuro.
Gli analisti di Goldman Sachs avvertono che una chiusura prolungata potrebbe spingere i prezzi del petrolio ben oltre i 100 dollari al barile, mentre scenari più estremi vedrebbero il Brent crude raggiungere quote di 120 dollari secondo le previsioni di Ing, o addirittura toccare i 350 dollari in caso di chiusura prolungata secondo le stime più pessimistiche. La vulnerabilità del sistema energetico mondiale diventa ancora più evidente considerando le scarse alternative disponibili. Attualmente, solo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dispongono di oleodotti operativi che possono aggirare lo stretto. Saudi Aramco gestisce l’oleodotto Est-Ovest da 5 milioni di barili al giorno, temporaneamente espanso a 7 milioni nel 2019, mentre gli Emirati collegano i loro giacimenti onshore al terminal di esportazione di Fujairah con una capacità di 1,5 milioni di barili al giorno. L’Iran stesso aveva inaugurato l’oleodotto Goreh-Jask nel 2021, ma non lo ha mai utilizzato operativamente.