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Il caso di Claudio Anastasio è emblematico di un’ignoranza istituzionale finita oltre ogni limite della decenza. Il manager, nominato lo scorso autunno dal governo Meloni alla guida di 3-I S.p.A., la società che gestisce i software di Inps, Inail e Istat, si è dimesso dopo una di quelle situazioni in cui viene davvero da interrogarsi sullo spessore umano, culturale e appunto istituzionale del protagonista. Quelle situazioni in cui – con un certo gusto dell’orrido – piacerebbe sapere cosa sia passato per la testa di un manager di questo livello mentre scriveva (o si faceva scrivere) una mail di quel tenore e contenuto e premeva invio per recapitarla ai componenti del consiglio d’amministrazione dell’azienda.
Il contenuto consiste in una precisa citazione del discorso a Montecitorio di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, quando il dittatore si assunse la responsabilità dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto l’anno precedente dopo le denunce sulle elezioni dell’aprile 1924. Uno snodo che secondo gli storici chiuse l’anticamera del Ventennio sancendo la definitiva svolta dittatoriale del regime. Solo che nella versione di tale Anastasio la sigla 3-I viene intercalata nel testo o utilizzata per sostituire “fascismo”.
Prendiamola in modo molto netto: ma queste persone dove credono di vivere esattamente? Quale livello di consapevolezza hanno del peso delle loro posizioni? Pensano che la presidenza di un qualche ente pubblico garantisca loro l’immunità dalle sciocchezze, dalle mancanze di rispetto, dagli attacchi insensati per non dire dai riferimenti storici storpiati senza pietà? E quale considerazione hanno delle loro comunicazioni interne e del ruolo che rivestono, troppo spesso scambiato per un pulpito delle loro “passioni” politiche?
Di più. Quelle fasciste sono evidentemente posizioni del tutto incompatibili con i ruoli nella pubblica amministrazione ma, anche volendo spingersi all’inaccettabile livello di prescindere dal contenuto, nei casi come quello di Anastasio – nominato appena lo scorso novembre – si assiste in modo ottuso e perfino autolesionistico all’inesorabile scomparsa della postura istituzionale. O ci si sente così forti da poter sfidare chiunque anche con le performance più indifendibili o, peggio, non si ha la benché minima percezione del proprio ruolo. In entrambi i casi un grosso pericolo per il paese non certo nell’immediato ma perché segnala una profonda crisi del “capitale umano” e della classe dirigente che pagheremo nel medio-lungo periodo. Fra l’altro, se questo è quel che l’esecutivo Meloni ha piazzato in giro nei primi round di nomine mesi scorsi, chissà cosa dobbiamo aspettarci per l’infornata di primavera, da Eni a Terna, da Leonardo ad alcune controllate di Ferrovie dello Stato.
La vicenda Anastasio – l’unico merito per cui lo ricorderemo saranno le tempestive dimissioni – torna poi a sollevare un altro tema, fra le cause del panorama deprimente che abbiamo di fronte nell’ambito delle nomine pubbliche: ci vuole più trasparenza anche quando l’iter attraversa lo scrutinio delle commissioni parlamentari, va interrotto lo spoils system scientifico, servono per tutte le posizioni concorsi internazionali per ruoli apicali per giunta in settori strategici. Sono punti sui quali tribunali, agenzie e altre autorità – a loro volta, nel secondo e nel terzo caso, figlie di un sistema malato di nomine, in un circolo vizioso tutto italiano – sono intervenute mille volte. Finché le poltrone saranno solo formalmente sottoposte a vincoli, norme e controlli ma di fatto nella piena disponibilità del governo di turno e non assegnate solo al servizio della collettività, a prescindere dal colore di chi siede a Palazzo Chigi, ci troveremo troppi Anastasio magari convinti pure di essere simpatici.