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Il volo aereo che unisce la Turchia a Minsk, capitale della Bieloriussa, è prevalentemente occupato da profughi siriani e da una donna dell’Afghanistan. È il 2021 e il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnko ha attirato migliaia di profughi nel suo Paese promettendogli di poter accedere in Europa facilmente. Una volta sbarcati e raggiunto il confine con la Polonia, però, i migranti si trovano di fronte a realtà ben diversa. Sono, infatti, stati attirati con l’inganno e si trovano per questo a sostare nel freddo inverno al confine nel bosco tra i due stati, sballottati fisicamente da un confine all’altro, perché nemmeno la Polonia li vuole. Attorno a loro si muovono i poliziotti di frontiera polacchi, soprattutto Jan che sta per diventare padre e sta costruendo la sua casa poco distante dal confine verde e soprattutto Julia. È una psicologa che casualmente entra in contatto con le storie di questi migranti anche grazie alla conoscenza di un gruppo di attivisti per i diritti umani. Insieme devono trovare un modo per salvare più vite possibili.
Agnieszka Holland non è nuova a narrazioni di questo genere. Prima della parentesi a Hollywood, aveva diretto un film che parlava di rifugiati, fuga e regimi criminali, nazisti per la precisione, in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Il film è Europa Europa ed è del 1991. A più di trent’anni di distanza lo spirito critico della regista non si è per nulla affievolito, anzi si è rinvigorito. A tenere accesa la miccia, sono le politiche anti-migranti del governo della sua Polonia, le scelte scellerate e misere del dittatore bielorusso in materia di migrazioni e l’Europa attuale, ancora alla ricerca di una strada sensata per affrontare questo problema umanitario. Se Io Capitano di Matteo Garrone ha raccontato l’efferatezza e il dramma del viaggio dei migranti in Africa, la regista polacca si focalizza su quello che le è vicino, il confine con la Bielorussia, quel confine verde, confine di boschi, quella terra di nessuno che separa i due stati. La narrazione di Green Border è pertanto, focalizzata su questa lembo di terra dove i soldati di entrambi i Paesi spingono e a volte gettano fisicamente oltre il filo spinato che li divide, i corpi dei migranti siriani, medio orientali e africani. Risultato: questi poveri uomini, queste famiglie, questi essere umani vivono in uno stato di rimbalzo e attesa che li logora e li uccide se a pensarci prima non sono le violenze dei soldati e il rigido inverno. Questa è la cornice storico-sociale che Holland filma in bianco e nero, per dargli un’ottica di racconto senza tempo, in cui aggiunge le linee narrative a supporto dell’idea del film. C’è la famiglia di siriani attratti dalla possibilità di andare in Norvegia da un loro parente, fermata al confine verde. La famiglia subisce un destino decisamente drammatico; nei tentativi di sfuggire a questo stato di violenza e indifferenza i suoi membri percorrono diverse strade per passare il confine e spingersi in Polonia, ma i risultati sono pessimi. La famiglia è, quindi, costretta a restringersi, privata di quasi tutti i suoi componenti di ogni età e a quelli rimasti rimane solo la fede, la preghiera. La descrizione della loro disperazione è reale. La camera a mano della regista e lo stare costantemente attaccato ai loro sguardi aiuta nella definizione della verità dei loro patimenti che esplodono in una disperazione vera, mai ridondante. La prima parte di Green Border è principalmente focalizzata, quindi, su di loro, sulle strategie di sopravvivenza e sul descrivere la relazione umana intessuta con gli altri migranti. Poi nella seconda parte del film emergono altre due linee narrative, accennate solo nella prima parte. La storia e la figura del soldato Jan, Tomasz Wlosok, è in realtà poco approfondita, eppure il suo punto di vista di militare che desidera vivere nella sua nuova casa, posta nei pressi del bosco al confine e per questo spesso occupata clandestinamente dai migranti, e che vuole custodire la sua famiglia al di fuori di quello che vede, sono solo accennati dalla regista. Non è chiara la sua definizione, se odii il suo lavoro, se non sopporti le popolazioni dei migranti, se è costretto a eseguire gli ordini oppure se trovi soddisfazione nel perpetrare il suo sadismo nei confronti dei migranti. La scelta finale da lui compiuta, gli conferisce una parvenza di definizione che però non trova i fondamenti nel resto della pellicola. Questo accade perché Holland preferisce concentrarsi sulla psicologa Julia, Maja Ostaszewska, su come avvenga da parte sua la scelta di aiutare i migranti e sul rapporto, spesso conflittuale, con i disorganizzati attivisti. Osservando la storia della donna, descritta con grande attenzione nei passaggi evolutivi, Green Border, però, perde intensità, passa dalla documentata verità della prima parte a un film vero e proprio di finzione. Per quanto, infatti, la regista cerchi di tenere legata la sentita scelta di attivismo della protagonista alla sofferenza dei migranti, la arricchisce con la sua storia umana narrata come fosse un film drammatico. C’è l’ironia, l’odio, lo scherzo, le situazioni di scherno, la vendetta, la complicità, ci sono molti elementi narrativi che compongono il segmento di Julia che stridono con la schiettezza e la franchezza espressiva della prima parte della storia. La psicologa si trova a gestire umanamente i capricci dei giovani attivisti, si scontra con loro ideologicamente e anche anagraficamente; in più quando si relaziona con la polizia di frontiera ha un’arroganza che seppur giustificata, risuona come forzata. Inoltre quando cerca di supportare alcuni migranti, la macchina da presa della regista è più concentrata sull’azione eroica che sui sentimenti o sul reale pericolo. È questo sbilanciamento narrativo che non permette a Green Border di mantenere una tensione costante. Certo non è documentario, però è anche vero che la giusta intensità drammatica che Holland utilizza per raccontare le vicende della famiglia siriana, rappresenta il giusto stile e punto di vista per narrare una tale vicenda. Con il personaggio di Julia, però, il film diviene maggiormente di finzione, lo spettatore si dimentica anche della famiglia di migranti, perché focalizzata sulla battaglia ideologica della donna.
Agnieszka Holland compie una scelta ben precisa e solo con il fatto che abbia permesso al cinema di narrare questo momento esistenziale, questa storia vera, questo prolungato attimo di non umanità, va il merito e il plauso di chi ama la settima arte. La storia è vera, è autentica, è reale, è eticamente corretta e si svolge nell’esatto momento in cui state leggendo queste righe. Rimane una asimmetria narrativa che sbilancia, ma per fortuna, non compromette del tutto la visione del film.
Crediti fotografici: Zielona granica (Green Border), official still (2)