giovedì, Aprile 18, 2024

Peste suina africana: i casi in Italia continuano ad aumentare

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Nel 2018 era una paura. L’arrivo in Belgio della peste suina africana, mentre il virus decimava gli allevamenti cinesi, aveva fatto alzare il livello di guardia anche dalle nostre parti. E, come temuto, la malattia è arrivata, anche in Italia, dove era endemica solo in Sardegna. Da circa un anno invece i casi della malattia – di origine virale, colpisce cinghiali e suini ma non è un pericolo per l’uomo – si hanno soprattutto in Piemonte e Liguria e Lazio. Al momento quelli accertati sono più di 300 nei cinghiali, e 4 sono i focolai nei suini, secondo quanto riporta la storymap realizzata dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise “G. Caporale”, COVEPI. Ma la situazione è molto diversa tra Lazio, dove è per lo più contenuta e Piemonte e Liguria, dove nuovi casi continuano a essere segnalati. Senza considerare che qualsiasi numero snocciolato non è che una sottostima del numero reale di casi da peste suina africana in Italia.

I casi di peste suina africana in Italia: “Solo la punta dell’iceberg”

Il timore legato alla malattia è presto detto: l’infezione negli animali colpiti ha un alto tasso di mortalità, si stima fino al 90%. Nel malaugurato caso in cui arrivasse a colpire gli allevamenti suini sarebbe un disastro, considerato che non esiste un vaccino in grado di proteggere gli animali. E la persistenza dell’infezione, soprattutto tra Liguria e Piemonte, desta più di una preoccupazione, per usare un eufemismo. Gli allevamenti di Cuneo, ma anche quelli della Lombardia ed Emilia Romagna son troppo vicini per ignorare il problema, come confida a Wired Francesco Feliziani, responsabile del laboratorio di riferimento nazionale per le pesti suine dell’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Umbria e delle Marche. “Quello che vediamo non è che la punta dell’iceberg”. Non sappiamo quanto grande, è vero. Il problema è che stabilire quante vittime stia mietendo il virus, anche solo elaborare una stima – l’Ispra ci ha provato e per il 2021 ha stimato almeno un milione e mezzo di animali – è difficile, ammette l’esperto, per motivi diversi. “Da un lato mancano i dati relativi alla reale consistenza delle popolazioni di cinghiali dall’altro nella maggior parte dei casi il virus uccide nei boschi, e anche le attività intraprese per mappare queste carcasse [punto cardine delle misure di controllo nelle aree soggette a restrizione, nda] non sono state abbastanza efficaci”. Lo ha ricordato, nei giorni scorsi, anche il commissario straordinario per l’emergenza, Angelo Ferrari, richiamando l’attenzione sulla mancanza di fondi per gestire la situazione. Che sia un problema di risorse ne è convinto anche Feliziani: quelle messe in campo finora non sono state sufficienti e sono arrivate tardi: “Il risultato è che in Piemonte e Liguria l’area interessata dall’emergenza si è triplicata nel giro di un anno, e ampliandosi serviranno sempre più risorse. Ed è questo quello che oggi chiediamo”.

Più risorse per le misure di contenimento

D’altronde contenere la peste suina africana costa. Ad oggi le strategie con cui si prosegue sono essenzialmente due: confinamento delle popolazioni interessate combinate con strategie di abbattimento. Il confinamento si basa sull’uso e potenziamento di barriere, come reti, che mirano ad evitare la dispersione dell’infezione, spiega Feliziani: “Uno dei principali modi con cui l’infezione si trasmette è il passaggio da un animale infetto a un animale sano, all’interno del branco e poi eventualmente da branco a branco. Ecco perché si punta a evitare qualsiasi attività che promuova la dispersione delle popolazioni infette e a evitare il contatto tra branchi”. A Roma, dove era stata colpita la popolazione del Parco dell’Insughereta, le misure di contenimento – aiutate dalla barriera artificiale del Grande raccordo anulare – hanno aiutato. Al punto che, confessa Feliziani, è probabile che il virus abbia smesso di circolare nella popolazione infetta, magari è già stato eradicato, si augura. “Non si notificano casi da settembre qui”, ricorda. “Al contrario, in Piemonte e Liguria, sono stati notificati casi anche al di là delle reti di contenimento”. Reti che non sono ancora state finite di posare, come ha ricordato il commissario straordinario e per le quali non bastano affatto quei 6,7 milioni di euro destinati alla loro posa.

Il (pericoloso) fattore umano

L’altro punto chiave della lotta alla peste suina africana è la riduzione della popolazione di cinghiali, con l’abbattimento degli animali mediante caccia di selezione e non di braccata, ricorda Feliziani. Ma non nelle aree infette, dove è ormai dimostrato che la caccia non solo non aiuta ma ha effetti deleteri: La caccia nelle aree infette deve essere vietata, perché crea disturbo, favorisce la dispersione degli animali e così aumenta il rischio di diffusione dell’infezione, senza considerare che la frequentazione del bosco da parte dei cacciatori crea le condizioni ideali per il trasporto dle virus al di fuori delle zone infette”. E il virus della peste suina africana è molto resistente, può sopravvivere per giorni. “In Belgio e nella Repubblica Ceca, dove è stata eradicata con successo, è stata praticata solo nelle fasi finali, su popolazioni isolate da recinzioni e dove il virus era stato lasciato correre, decimando gli animali”. 

Il fattore umano ha giocato infatti un ruolo chiave nella diffusione della malattia. È probabile che sia arrivata così, sia a Roma che in Liguria, continua l’esperto. “Il fattore umano non si limita al trasporto del virus, ma anche alla sua presenza nelle carni e nei rifiuti. Questi a loro volta possono così diventare vettori della malattia: è per questo che la conquista di nuovi habitat, come quelli cittadini [abbiamo tutti in mente le immagini dei cinghiali che scorrazzano per Roma, nda] da parte di questi animali rappresenta un ulteriore fattore di rischio, non solo per l’aspetto demografico: una popolazione con più animali significa più individui suscettibili”. Il messaggio è chiaro: più aumentano i fattori di rischio, più aumenta la probabilità di introdurre l’infezione. E tra i fattori di rischio non va dimenticata la pratica di foraggiamento (vietata) degli animali: “Normalmente l’inverno è la stagione più dura per i cinghiali. Ma le pratiche di foraggiamento, perpetuate dai cacciatori, hanno favorito la sopravvivenza e la fertilità della specie, contribuendo all’esplosione demografica dei cinghiali”.

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